40 anni fa il rapimento del giudice Giovanni D’Urso: il ricordo del componente togato del Csm Sebastiano Ardita


Pubblicato il 16 Dicembre 2020

Quaranta anni fa, esattamente il 12 dicembre 1980, le Brigate Rosse rapirono Giovanni D’Urso, magistrato di origine catanese che ricoprì la carica di Direttore dell’ufficio detenuti del Ministero della Giustizia.A ricordarlo con parole intese e forti è stato il componente togato del Csm, Sebastiano Ardita, durante una seduta del plenum dell’organo di autogoverno della magistratura. 
“D’Urso  venne più volte ‘interrogato’ dai terroristi : per il suo silenzio venne condannato a morte e rischio’ di essere ammazzato”. Eppure “oggi niente lo ricorda: nè via, neppure una sperduta sala di uno spaccio per agenti porta il suo nome. La vita di Giovanni, il suo abbandono in prigionia, la sua dimenticanza, rappresentano una mancanza imperdonabile per le Istituzioni”.
Ha sottolineato con amarezza il consigliere del Csm mentre  D’Urso “tenne un comportamento eroico  ad occupare un posto dopo che due direttori erano stati uccisi (Girolamo Tartaglione e Girolamo Minervini) e a resistere 40 giorni al rapimento, agli interrogatori ed alla tortura psicologica della condanna a morte da eseguire”, ha detto Ardita che, tra l’altro, gli successe nel posto di direttore dell’ufficio detenuti.  Ardita ha sottolineato che “dopo qualche giorno il Governo in modo unilaterale decise di chiudere il carcere dell’Asinara, ma quando le Br, in cambio del suo rilascio, chiesero molto piu’banalmente di pubblicare alcuni comunicati sui giornali tutti si opposero fermamente. Nanni rimase solo, con l’eccezione di Marco Pannella che mise a sua disposizione lo spazio tv del partito Radicale, nel corso del quale la figlia Lorena lesse quei comunicati, in cui il padre veniva definito ‘boia’, facendo commuovere l’Italia intera. Nanni fu poi rilasciato e concluse la carriera come presidente della prima sezione della Cassazione, ma si ammalo’ e mori’ prematuramente”.
Al suo funerale ricorda ancora Ardita, “mi recai mentre occupavo il posto di direttore dell’ufficio detenuti che gli era appartenuto. A quella cerimonia era presente qualche decina di persone, solo parenti e amici piu’ stretti. A parte 4 colleghi della Cassazione, lo Stato era assente: non vi era neppure una corona, una divisa o una figura istituzionale a rappresentarlo.
Nanni – ha aggiunto – tenne un comportamento eroico ad occupare un posto dopo che due direttori erano stati uccisi, Girolamo Tartaglione e Girolamo Minervini, e a resistere 40 giorni al rapimento, agli interrogatori ed alla tortura psicologica della condanna a morte da eseguire.
Oggi – ha concluso il togato -niente lo ricorda: ne’ una via, neppure una sperduta sala di uno spaccio per agenti porta il suo nome. La vita di Giovanni, il suo abbandono in prigionia, la sua dimenticanza, rappresentano una mancanza imperdonabile per le Istituzioni”.
Rosario Sorace.

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