Cultura ed Eventi: presentata la seconda edizione de la “mafia di carta” del prof. Tino Vittorio


Pubblicato il 25 Marzo 2015

di Antonio Giovanni Pesce

Un libro ha sempre la fortuna che il tempo gli decreta. Non è questione di autori, di editori, e forse neppure di contenuti, quantunque tutto ciò sia molto importante. È che un libro dice cose a orecchie disponibili ad ascoltarlo. Vent’anni fa, quando uscì la prima edizione di questo lavoro di Tino Vittorio, Mafia di carta, alcune cose erano troppo nuove perché l’uditore non se ne ritraesse sconcertato (eppure piacque già allora). Oggi, che paradossalmente potrebbero essere considerate troppo scontate, nessuno teme più la discussione, che si può spostare nell’aula magna del dipartimento di scienze politiche, per la presentazione della seconda edizione.

C’era l’accademia e la politica. C’era la destra e la sinistra. E Uccio Barone, il direttore del dipartimento, ha tutte le ragioni di sentirsi soddisfatto: da quelle parti lì, l’analisi del fenomeno mafioso non è mai mancato. Rosario Mangiameli (La mafia tra stereotipo e storia, Roma 2000) e Salvatore Lupo (quest’ultimo ormai di stanza a Palermo e con un una bibliografia in merito assai vasta) sono i due esempi citati da Barone, ma sono esempi che, con Vittorio, danno lustro al dipartimento. Però la provocazione di Vittorio non è passata inosservata. C’è una mafia vera, di carne, che la carne prima la ‘sputtusa’ e poi la fa imputridire, se non la squaglia nell’acido o non la iberna nel cemento. E poi c’è la mafia di carta, di chi sulla mafia intanto ci scrive, e poi è da vedere se ci scrive bene, con competenza, o ci scrive per costruirsi una carriera.

Ovviamente, se la dicotomia ufficiale è tra mafia di carne e mafia di carta, quella non ufficiale, ma che ha tenuto banco sotto sotto, è quella tra antimafia vera e presunta, antimafia della giustizia e antimafia della carriera. Antimafia di lotta e antimafia di governo, insomma. Discussione che cade a fagiolo di questi tempi in Sicilia. Perché in appena un paio di mesi, la Sicilia si è trovata con Antonello Montante, presidente degli industriali insolani, delegato Confindustria per la legalità, amico del “padre” dell’antimafia siciliana in salsa rosa (nel senso di piddina), Beppe Lumia, indagato dalla procura di Caltanissetta per presunti reati di mafia, e Roberto Helg, presidente della Camera di Commercio di Palermo, “paladino antipizzo”, che ha finito per chiederlo lui il pizzo, perché con ottomila euro di busta paga non arrivava a fine mese. Ed è dall’anno scorso che nell’Isola si discute su chi ha diritto di dirsi più antimafioso dell’altro. Tanto che alla “Leopolda 2.0” in Sicilia, a fine febbraio, Davide Faraone, sottosegretario all’Istruzione, è passato al contrattacco: «basta con un certo tipo di antimafia che si muove solo per interesse perché proprio questo modo di agire danneggia chi fa antimafia veramente e sul campo, come le tante cooperative che gestiscono i beni confiscati». Ed erano i giorni in cui gli ex Articolo4 marciavano verso il Pd.

Così, si spiegano certi affondi nell’intervento di Nello Musumeci. Che ha facile gioco: la vera antimafia la fece il regime fascista. Vuoi o non vuoi, il prefetto Mori colpì nel segno – se pescò solo i pesci piccoli o anche quelli grandi è altra faccenda. Quando nella campagne siciliane gli allevatori non dovettero fare più i turni di guardia per proteggere il bestiame, qualcosa di certo era cambiata. Poi, la mafia ridiventa protagonista con il crollo dello Stato dopo l’8 settembre e lo sbarco alleato (notizia fresca: uscirà presto un suo lavoro sullo sbarco).

Una mafia che cerca alleati e si fa stato – forse questo il filo che può legare l’intervento di Burtone a quello di Musumeci, a cui il deputato Pd ha reso la pariglia invitando a non «ideologizzare, a non essere manichei», con i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. La mafia è un’associazione a delinquere basata sulla crudeltà, e da antistato s’è saputa fare stato. Chi la combatte merita rispetto, anche se non tutti quelli che predicano bene razzolano altrettanto.

Schermaglie politiche, insomma. Ed è passato in secondo piano il punto più importate del discorso di Vittorio. «La mafia non ha una sola chiave di lettura (politica, economica, ecc) – ha detto lo storico catanese – ma è antropologia alimentata da marginalità secolare». Questa non è solo una bellissima affermazione; è anche una dura presa di posizione contro certa storiografia catanese, che volendo giustificare le baronie siciliane, ha sempre rigettato l’idea che la Sicilia fosse quella che tutti noi viviamo. No, la Sicilia è un’altra – dicono alcuni, e le rughe gliene hanno fatte venire gli amici di certi loro nemici. Che nemici sono diventati, quando hanno fatto saltare il banco, e hanno preso tutto per sé. Prima, erano tutti seduti allo stesso tavolo. E non si accorgevano che la Sicilia si spopolava di giovani, tutti in fuga da una marginalità che rende precario ogni diritto. 

 

 


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