Catania, secondo il pentito D’Aquino, ‘Calimero’, amico dei boss, allo stadio pretendeva di sedersi nel posto assegnato al prefetto


Pubblicato il 30 Maggio 2012

di Iena Marco Benanti

L’amico dei boss che allo stadio “Angelo Massimino” di Catania pretendeva di sedersi nella poltrona riservata al prefetto. No, non è una commedia teatrale ma sotto l’Etna succedeva davvero e doveva intervenire l’ex reggente del clan Cappello, Gaetano D’Aquino, oggi collaboratore di giustizia, per dissuadere Gaetano D’Antonio, detto “Calimero”, dal suo proposito a dir poco di sfida e di disprezzo alle istituzioni statali.

A svelarlo è stato lo stesso boss, oggi pentito, Gaetano D’Aquino che nei giorni scorsi ha deposto nel processo contro i fratelli Lombardo, pendente davanti alla quarta sezione penale del Tribunale di Catania, presieduta da Michele Fichera, nel quale si parla di rapporti tra mafia, politica e imprenditoria.

A raccogliere le deposizioni i pubblici ministeri Michelangelo Patanè, aggiunto del procuratore della Repubblica Giovanni Salvi e Carmelo Zuccaro, coordinatore della Dda catanese. D’Aquino spiega anche che ‘Calimero’, marito di una consigliera provinciale, non era un vero e proprio affiliato alle famiglie mafiose, ma uno che “aveva le porte aperte da ogni clan per via dei suoi rapporti politici”.

I due, D’Aquino e ‘Calimero’, sarebbero divenuti amici solo successivamente -ha raccontato il pentito in aula-. In precedenza, infatti, D’Aquino aveva dovuto dargli una bella “passata di coppa” dopo averlo inseguito da casa sua fino a piazza Lanza. Motivo? “Calimero -ha dichiarato il pentito D’Aquino- andava dicendo in giro che me le doveva suonare e così appena l’ho visto passare sotto casa mia l’ho inseguito con la moto e dopo averlo raggiunto a piazza Lanza l’ho ripetutamente bastonato. Poi mi sono fermato perché alla fine era sempre un lavoratore e comunque nei giorni successivi mi cercarono diversi mafiosi per invitarmi a chiarire la vicenda con ‘Calimero’ e metterci una pietra sopra”.

p style=”text-align: justify;”>Insomma “la città degli amici”, questa è Catania, una realtà di regole non scritte, di contatti e connivenze, di situazioni da “risolvere” con la scorciatoia, in modo davvero informale ma utilmente efficace. In un contesto del genere non è difficile che accada quanto raccontato dal collaboratore di giustizia Gaetano D’ Aquino nell’ultima udienza del processo ai fratelli Lombardo per reato elettorale. Cosa ha raccontato D’ Aquino? Che il signor Gaetano D’Antonio, detto “Calimero”, personaggio –a dire del pentito- ben voluto dalle cosche, avrebbe voluto per sé il posto riservato, in tribuna “Vip”, al “Massimino”, addirittura per il Prefetto.

Certo, è la parola di D’Aquino, non è il Vangelo, ci vorranno magari i riscontri dovuti, ma qualche considerazione –se fosse tutto vero- sorge spontanea. Tutto da ridere o da piangere? No, tutto sommato soltanto un’espressione della “catanesità” reale, si direbbe. Insomma, “io sono io e faccio quel che mi pare, gli altri si adeguino” –questa, in soldoni, la “cultura” sottostante.

Un sottofondo che è possibile notare ogni giorno sotto l’Etna, in una città “Far West”, dove la prepotenza, il menefreghismo, l’indifferenza per gli altri sono una sorta di “codice” reale collettivo. Lo vedi nel traffico, negli uffici pubblici, nelle piccole e grandi cose della vita quotidiana, una mistura di pseudoindividualismo e di furente voglia di fare sempre e comunque a meno anche di poche ma doverose regole di convivenza civile. Né senso del pubblico, né dei diritti degli altri, né autocontrollo e vera autonomia, autodeterminazione, quanto semmai un modo molto selvaggio di “farsi largo”, senza troppo badare al sodo. In una parola: fottendosene di tutto.

Il bello (o il brutto?) è che anche e soprattutto fra la “gente perbene” questo “Catania’s style” è diffuso e tutto sommato giustificato. Magari con una risata o un’occhiata maliziosa all’amico. “Vedi, chissu è uno a postu..” e un’espressione compiuta di seguito.Perché allora “scandalizzarsi”? Perché verso chi sta in “alto” (il Prefetto) o nei confronti di chi vive in “basso” (l’ultimo dei disoccupati) si dovrebbe sentire o vivere qualcosa al di là del proprio “io”? Certo, si risponderà la “mala” (altrove si direbbe la “guapperia”) –sempre se le parole di D’Aquino sono vere- sono soltanto una parte di una comunità complessa: la conosciamo questa tesi, molto spesso alibi per benpensanti. Sarà, ma tanti anni fa c’è chi descrisse questa “sindrome”: le pagine di Pippo Fava sono illuminanti.

Raccontava di una città dove la “violenza è totale”, e citava una “campionaria” del disprezzo altrui: dai soldi falsi, all’arroganza nelle piccole cose fino al colpo di pistola. Peccato che tutto questo avveniva trenta-quarant’ anni fa: del resto vuoi cambiare la mentalità e il sentire di un pugno di “dei” (quegli “esseri superiori” che molti catanesi pensano di essere) in pochi anni? Se poi questi “dei” abitino in una delle città più “difficili” d’Italia (sempre nelle retrovie delle graduatorie della vivibilità nazionale) significherà qualcosa? Chissà…


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