CATANIA – “Apprendiamo, con vero dispiacere, solamente dalla stampa – afferma il Segretario Provinciale Avv. Pietro Lipera – nonostante la nostra presenza in seno al consiglio metropolitano, di esser stati totalmente esclusi dal novero dei delegati che affiancheranno il sindaco della Città Metropolitana, Avv. Enrico Trantino, nella conduzione amministrativa dell’ente. Una sgrammaticata decisone politica, atteso […]
L’OPPOSIZIONE
Pubblicato il 13 Luglio 2025
La classe dirigente catanese ha messo in campo il meglio che aveva nel suo arsenale per impegnarsi nella guerra finale contro il problema dei problemi di questa città: lo sconfinamento dei mammoriani.
Così vengono appellati i ragazzi delle periferie per il loro colorito modo di affermare – diciamo così – di essere “onesti intellettualmente”, giurando su quel che hanno di più sacro: la loro mamma.
I mammoriani, unanimemente tollerati nella curva dello stadio e quando, di bianco vestiti, tirano i cordoni della santa patrona etnea, non sono accettati dalla classe dirigente catanese nel resto della vita quotidiana.
Questo perché il mammoriano, oggettivamente mal vestito e con i suoi modi grevi e scomposti, pretenderebbe di sedersi accanto alla gente che conta nei locali della Catania bene, nelle discoteche, dove i vari Manlio, Gaetano, Salvo (nomi di fantasia) la fanno da padroni. Soprattutto il mammoriano, lo si deve allegare, rende la vita cittadina caotica e selvaggia con i suoi modi di fare incivili, posteggiando in seconda fila, non rispettando le regole del vivere quotidiano. Il mammoriano, è vero, non ha buone maniere, con i suoi modi chiassosi e anarcoidi. Uno schifo estetico, insomma.
Va detto, però, che sino a qualche tempo fa, non che fosse accettato, ma onestamente veniva tollerato, si permetteva che il mammoriano arrivasse in centro con le sue macchine con i led sbirluccicanti per mangiare la carne di cavallo a piazza Federico II, quella che lui chiamava il Castello Ursino. Al castello era tollerata un po’ di vastasaggine che coloriva la città ed era un meraviglioso argomento da salotto, tra astanti che, tra un ricordo dell’amicizia dei padri, degli zii, delle famiglie insomma, raccontavano dell’experience da Achille alla via Plebiscito o al Castello dal cavaliere Roxi, mentre si ascoltava il maestro Brigantony che ai Salvo, ai Mattia, agli Enrico fa ridere a crepapelle. Era un modo di vantarsi del coraggio dello sconfinamento, della persona bene, nei luoghi del “popolo”.
Oggi, però, con il turismo che incombe e che dà fiato a tutti quei secondi e terzi immobili affittati a tempo breve, non possono essere tollerate zone d’ombra. Quindi anche il Castello e la Pescheria occorrono. Servono alla mission. All’economia della città che conta. O lo capiscono e si evolvono o saremo costretti a farglielo capire.
Un processo di rieducazione borghese, questo serve.
Un processo che è solo l’ultimo step di un complesso e faticoso viaggio molto più lungo, nemmeno il più importante. Pensate che qualche decennio fa, a Catania, senza nemmeno una guerra, si sradicarono migliaia di persone dal centro, abbattendo le loro case, nel vecchio san Berillo e spostandole nella più grande deportazione di massa fuori da un periodo bellico – Trump scansati – nel nuovo san Berillo e al Librino.
Migliaia di famiglie catanesi furono prese, gli furono levate la casa e la bottega dove facevano gli artigiani, e trasportate nelle periferie, con la promessa di un immobile meno fatiscente e un posto nel pubblico impiego. E tutto ciò avvenne senza che nemmeno un ricercatore universitario della Catania bene o della intellighenzia di sinistra si sentisse di dover scrivere due righe per raccontare un flusso di migliaia di persone, deportate senza che occorresse nemmeno una guerra. Altro che Castello Ursino.
Tutto va bene, quindi, bravo il Sindaco, bravo l’Assessore, il Dirigente, la Polizia: Catania risorge, come nel suo detto, melior de cenere surgo.
Il problema ora, però, è che la Catania che risorge, quella che vince, quella che coraggiosamente, si sta battendo, indomita, contro la gente incivile non vive più a Catania. Si è trasferita tanto tempo fa. Se ne è andata a San Gregorio, a Battiati, a Canalicchio. A Catania non ci sta più.
E quindi?
E quindi non vota. Votano solo loro, quelli con la tuta Gioggio Ammani, la cintura finto Gucci e gli occhiali Raiban dorati.
Loro votano! Ma ancora votano noi. Giusto?
Quasi.
Votano i loro rappresentanti in consiglio comunale, per tramite di patronati e centri di disbrigo pratiche, dove i diritti diventano cortesie, ma il sindaco no!
Il sindaco è ancora scelto tra le “famiglie” che contano della città.
Succederà ancora?
Scommetteremmo sul sì, ma con un “però”. Sì, perché da un po’, questa pax cittadina, basata sugli affari appannaggio della buona borghesia e il popolo che si divide le briciole, non funziona più e non perché si sia proceduto in qualche forma di riequilibrio.
Tutt’altro. Piuttosto perché la crisi ha fatto danni e turismo a parte (che rischia essere una chimera), la città è diventata un deserto economicamente e culturalmente parlando. E quindi? E quindi, la buona borghesia ha messo in fuga i propri figli verso le università del nord, dove c’è cultura, civiltà e soprattutto soldi.
Allora, non ci si può non fare una domanda: perché una classe dirigente che a Catania ha prodotto tutto questo; che in città nemmeno ci vive; che lascia scappare i propri figli; perché una classe dirigente di tal specie, di destra e di sinistra, dovrebbe ancora dire come si deve vivere in questa città e farlo in questo modo così arrogante?
La risposta, forse, è nella domanda: perché è arrogante ed è solo l’altra faccia di quella vastasaggine tutta catanese che da un lato veste sguaiato e dall’altro si fa cordoglia di una città che ha devastato.
di Iena dell’opposizione.



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