“Urbanistica alla catanese”: per fortuna, la magistratura vigila. Si dice sempre così


Pubblicato il 19 Ottobre 2025

Pubblichiamo alcune riflessioni della sezione catanese dell’associazione “Volerelaluna” sulle ultime vicende urbanistiche che riguardano Catania.

Catania, ancora una volta Milano del Sud?

Il recente scandalo dell’urbanistica milanese ha portato sulla ribalta dei telegiornali la gestione “disinvolta” del territorio a Milano, organizzata scientificamente per offrire vantaggi sensibili agli operatori privati a fronte di un interesse pubblico divenuto residuale nelle politiche urbane.

Ce ne accorgiamo adesso per l’improvviso clamore mediatico, ma non è una novità. E non riguarda solo Milano. Fin dagli anni Novanta tutta l’Italia è stata attraversata dai furori dell’urbanistica contrattata, della “flessibilità” delle regole, degli incentivi spropositati agli investimenti privati che – dicono – porteranno sviluppo, benessere e occupazione, ma che spesso portano solo disordine urbano, consumo di suolo, immobili invenduti e allontanamento dei ceti popolari.

Oggi Milano, perpetuando la narrazione della sua ambrosiana efficienza, si impone come capofila di una corrente di pensiero, a cui purtroppo corrisponde anche un concreto fare urbanistico, che dietro il paravento della “rigenerazione urbana” nasconde acquiescenza delle amministrazioni pubbliche agli interessi speculativi più diversi e, parallelamente, assenza di strategie capaci di migliorare la vivibilità delle città e le condizioni di vita di tutti i cittadini. Unica strategia è l’incentivazione dell’iniziativa privata in tutti i modi possibili. La città nelle mani della rendita.

I recenti fatti di Milano ci parlano di mancato pagamento degli oneri di urbanizzazione, a tutto vantaggio degli operatori immobiliari e a svantaggio della città; di conflitti di interesse; di interpretazione falsata delle leggi; di forzatura delle regole; di un diffuso senso di impunità di amministratori e funzionari pubblici che gestiscono il territorio considerandolo “cosa loro”. Ci parlano, insomma, di una cultura urbanistica che ha da tempo abbandonato la pretesa di governare la città, consegnandola a chiunque voglia portare a termine la sua valorizzazione immobiliare, piccola o grande che sia. Anche le leggi urbanistiche vanno nella stessa direzione. Prima che di crisi politica, forse dobbiamo parlare di crisi culturale generalizzata.

Ma se ci guardiamo intorno con la dovuta attenzione vedremo che oggi in Italia ogni città è Milano. Come scrive il sociologo Filippo Barbera su Il manifesto del 5 agosto scorso, «Milano è la punta dell’iceberg di un paradigma urbano che ha reso opachi i confini tra pubblico e privato, tra legalità e legittimità, tra città pubblica e città privata. Gli indagati si dichiarano innocenti, “puliti”, agenti di un meccanismo che non richiede tangenti come nella cosiddetta prima Repubblica ma agisce nelle pieghe e ai confini del diritto amministrativo, forzandolo, e costruendo coalizioni locali trasversali tra politica, business e legittimazione culturale». Un meccanismo che alcuni studiosi dei fenomeni urbani definiscono “regime urbano”, intendendo con questo termine una pragmatica alleanza tra diversi soggetti operanti nella città, i quali si coalizzano intorno a un’idea condivisa di crescita e finiscono per diventare il dominus del governo del territorio. Protagonisti principali dei “regimi urbani” sono gli operatori immobiliari e i politici, ma di solito vi partecipano attivamente diversi altri soggetti accomunati da interessi economici e convenienze incrociate: società finanziarie, studi professionali, pubblici funzionari, compagnie assicuratrici, fondazioni bancarie, università, ecc.

E Catania? Ovviamente Catania non vuole restare indietro. Vuole tornale ad essere la Milano del Sud come nei gloriosi anni Sessanta (gli anni del boom economico che da noi era essenzialmente boom edilizio) quando una marmellata di case invadeva le pendici dell’Etna valorizzando suoli agricoli che diventavano edificabili. Negli anni Novanta si è continuato a consumare suolo a vantaggio della rendita fondiaria, scavalcando le regole della pianificazione, grazie anche a una legge regionale che consente di lottizzare terreni a destinazioni agricola purché limitrofi alla città, con finanziamenti pubblici a tasso agevolato e senza contropartite per la pubblica utilità. A Catania si è trovato il modo di farlo anche su terreni destinati a verde pubblico dentro la città, cosa non prevista dalla legge.

Quando la domanda di case cominciava a segnare il passo per saturazione del mercato una provvidenziale legge pomposamente definita “piano casa”, con il suo particolare recepimento regionale oggi bloccato dalla corte costituzionale, ha trovato il modo di favorire ancora la rendita urbana. La legge consentiva di realizzare grattacieli – a Catania sono un po’ più piccoli che a Milano – in sostituzione di piccoli fabbricati contigui tra loro, con premialità di volumetrie fino al 35% in più rispetto al preesistente, in deroga ai parametri edilizi vigenti (i vantaggi per la rendita) e pagando oneri di urbanizzazione dimezzati (gli svantaggi perla città). Catania riesce a distinguersi applicando questa legge anche in aree destinate ad attrezzature di pubblica utilità (strade, verde, servizi), dove invece non sarebbe consentito, e forzando le norme per autorizzare incrementi volumetrici maggiori di quelli consentiti. Rendita urbana e speculazione immobiliare dominano incontrastate.

A proposito di oneri di urbanizzazione, da sempre pagati applicando tariffe che rimangono irrisorie per “non frenare lo sviluppo”, rimane ignorata la norma che stabilisce che per gli interventi in deroga allo strumento urbanistico si debba pagare al Comune un contributo economico, vincolato alla realizzazione di servizi pubblici, pari al 50% del maggior valore generato dall’intervento. Un regalo non da poco per gli operatori immobiliari, una perdita notevole per la città costretta a rinunciare a somme utili per la realizzazione di servizi. Ancora una volta, al vantaggio per i privati corrisponde la penalizzazione dell’interesse pubblico. Un raffronto impietoso: in Italia gli oneri urbanistici incidono per il 3-5 % del valore del costruito, in Germania per il 25-30%. Quegli oneri sarebbero uno strumento importante per restituire alla collettività una parte delle plusvalenze che la rendita ricava dalle trasformazioni urbane rese possibili proprio dall’amministrazione pubblica con i suoi provvedimenti urbanistici.

Ci siamo anche inventati un modo per valorizzare terreni liberi destinati a servizi pubblici (scuole, asili, chiese, ecc.) costruendoci, con il beneplacito del Comune, supermercati di importanti catene della grande distribuzione che assicurano profitti consistenti per gli operatori e plusvalenze significative per i proprietari dei terreni. Per giustificare la forzatura funzionari, assessori e dirigenti regionali si uniscono in un coro unanime che non si fa scrupolo di imbrogliare le carte per sostenere che soltanto alcune delle tante cartografie del piano regolatore vigente siano valide, giudicando invece inefficaci quelle che non consentirebbero l’operazione. Vengono così occupate a fini privati aree libere che potrebbero essere utilizzate per servizi pubblici di cui c’è necessità. Ancora una volta, a Catania come a Milano, l’interesse privato è considerato prevalente rispetto all’interesse pubblico, sempre invocando il mantra dello “sviluppo” per cui bisogna attrarre investimenti in ogni modo, generalmente sorvolando sulle regole e abbassando i costi di intervento per l’operatore privato.

Nel caso del corso Martiri della Libertà, sviluppo, attrattività e rigenerazione urbana provocano un corto circuito di cui non si riesce a venire a capo. Nonostante i progetti avveniristici per i quali nel 2012 Comune e proprietari dei suoli hanno firmato una convenzione urbanistica, una vasta zona inedificata intorno al corso Martiri, per circa sei ettari di estensione, rimane inutilizzata e in preda al degrado. Progetti campati per aria non riescono ad “attrarre investimenti” e nessun operatore economico vuole avventurarsi in operazioni che si preannunciano fallimentari. La convenzione prevede anche obblighi per i privati: fra questi la realizzazione, a loro spese, di alcune urbanizzazioni primarie (parcheggi e verde). Ma senza la certezza di vendere le aree edificabili la realizzazione delle urbanizzazioni rischia di essere un inutile salasso economico per i proprietari delle aree. E così questi comunicano all’Amministrazione di non volere adempiere. Il sindaco, ritenendo inopportuno pretendere dai privati il rispetto della convenzione, rinuncia a far valere i suoi diritti (che sono anche diritti della città) e annuncia l’intenzione di comprare le aree che dovrebbero essere cedute gratuitamente per le urbanizzazioni, dichiarando che poi le realizzerà con fondi pubblici. Insomma, un regalo dietro l’altro a favore della rendita urbana e a spese dei cittadini. Nel frattempo la proprietà cambia di mano ripetutamente approdando a società finanziarie e fondi di investimento. I suoli urbani diventano un prodotto finanziario, mentre la città resta a guardare impotente chiedendosi perché una zona inedificata così centrale continui a rimanere in abbandono.

A Catania come a Milano, non è affatto scontato che dietro le irregolarità ci siano corruzione e scambi di favori. C’è soprattutto la concezione neoliberale dell’urbanistica che vede la città soltanto come un’occasione di profitto. Citiamo ancora Filippo Barbera: «Nella corruzione tradizionale – quella che si celebrava con bustarelle e scambi espliciti – sussisteva un atto illecito definito, un beneficio personale evidente, un processo riconoscibile e tracciabile. L’urbanistica neoliberale produce invece un “capitale innocente” in quanto anonimo, diluito in normative e prassi, ambiguo e opaco, pervicacemente piegato ai vantaggi privati, spesso invisibile, perché coperto dal velo della sincerità del reo e dei meccanismi di gruppo che alimentano le cerchie di riconoscimento di chi “agisce nell’interesse della città”. Così, la città neoliberale declina l’innocenza individuale come falsa coscienza collettiva. Lo fa non in modo individualizzato ma strutturale, creando un’atmosfera organizzativa dove le pressioni diventano meccanismi di appartenenza alle reti che contano e le forzature amministrative diventano “agilità gestionale” in nome dello sviluppo economico».

A Catania come a Milano, tutto questo è avvolto in una narrazione menzognera che nasconde tutto dietro la mitologia della rigenerazione urbana e capovolge la realtà per far sì che un agire opaco possa diventare motivo di orgogliosa propaganda e di acquisizione del consenso. “Rigenerazione” diventa la parola magica che può nascondere dietro un artificio lessicale accattivante qualunque “valorizzazione” immobiliare.

Catania continua a essere la Milano del sud come negli anni Sessanta, ma con una differenza: oggi Milano non è modello di dinamismo produttivo ed economico ma, più semplicemente, di appropriazione privata della città a vantaggio delle “reti che contano”.

A Catania come a Milano, per salvare la città è ormai urgente un drastico cambiamento di rotta: dalla “città della rendita” (quella esclusivamente finalizzata agli affari ottenibili dalla valorizzazione economica dei beni immobili, guidata dall’ideologia della “crescita”) alla “città dei cittadini” (quella considerata un bene comune e non una merce, in cui i cittadini possano realizzare la loro aspirazione al benessere generalizzato degli abitanti di oggi e di quelli futuri); una svolta in cui la partecipazione dei cittadini, gestita secondo regole precise ben codificate, deve diventare un elemento fondamentale. E va soprattutto ripristinata l’effettiva capacità degli enti pubblici di governare i processi di trasformazione dei territori per obiettivi di miglioramento della qualità ambientale e sociale della città, cioè della qualità di vita di tutti i cittadini. Insomma, un’altra idea di città.

Volerelaluna – Catania.


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