ECONOMIA E “NUOVA OCCUPAZIONE”: IL “VOLTO TECNOLOGICO” DI “ALMAVIVA CENTER”. CHE VIOLA I DIRITTI DEI LAVORATORI


Pubblicato il 22 Giugno 2015

di iena operaia marco benanti

Un tempo –dicono lontano- Catania era dominata da un’economia “drogata”: l’ “era dei cavalieri del lavoro” è ricordata anche per le perversioni, le distorsioni, le connessioni con il malaffare. Veramente una “brutta era”. Un periodo oscuro, quindi, nel corso del quale le grandi imprese –di fatto- ricorrevano al “ricatto occupazionale”, insomma imponevano le loro condizioni, e se qualcuno aveva da ridire la risposta era già pronta: i lavoratori finivano sotto tiro.

Dopo il crollo dei “cavalieri” la propaganda ha raccontato che le cose sarebbero cambiate. Insomma, niente più strapotere imprenditoriale, nessun ricorso –anche solo paventato- a ritorsioni sui lavoratori, uno “sviluppo” –hanno raccontato- fondato sull’ High-Tech, sulle nuove tecnologie. Che –hanno sempre raccontato- sono “liberatorie”. Della vita delle persone. Proprio così.

Peccato che, come accade sempre quando dal bla-bla della propaganda si passa alla verifica della realtà, le cose non siano affatto così. Altrimenti, non si spiegherebbe la vicenda di un gruppo di lavoratori del call center “Almaviva Contact” di Misterbianco, a pochi chilometri da Catania. Un’occupazione “high tech” come vogliono i tempi questa, peccato che le condizioni di fatto dentro l’azienda hanno molto meno “appeal” di quanto racconta la propaganda.

Eppure, parliamo di una realtà imprenditoriale di enormi proporzioni, impegnata su tutto il territorio nazionale, tanto da poter contare 2800 dipendenti. Niente male. Insomma, una grande impresa. Suo principale committente la “Vodafone”. La grande impresa è sbarcata anche nel catanese, ovvero in un’area dove un’occupazione decente è per oltre metà della popolazione una chimera. E questo da molto, molto tempo. Vogliamo dire che è un vantaggio investire in un’area ad alta disoccupazione? Sì, lo vogliamo dire. Visto il contesto, le possibilità che i lavoratori accettino condizioni al limite o oltre la legalità sono piuttosto alte.

Succede allora che un gruppo di lavoratori chiedono che fra le loro mansioni reali e l’inquadramento nell’azienda ci sia corrispondenza reale e non…virtuale. Insomma, un contratto di lavoro a progetto le cui mansioni sono diverse dal…progetto. Non solo: anche i modi di esecuzione non sono compatibili con la normtiva in materia. Da loro arriva, perciò, una “clamorosa” richiesta all’azienda: procedere per la conversione del contratto e nel contempo recuperare le somme dovute. E non percepite. Perché? Perché c’è una bella differenza fra un contratto a progetto per realizzare contratti in outbound (insomma, chiamando i potenziali clienti) e un lavoro di fatto di con mansioni esecutive di “back office”, ovvero un impiego di natura amministrativa e tecnica per la materiale attivazione del servizio richiesto dal cliente. Le divergenze di fatto nell’occupazione quotidiana fra dato formale ed impegno reale non sono di poco conto: ad esempio, per quanto riguarda l’orario di lavoro, visto che, a differenza di quanto stabilito contrattualmente, è l’impresa che detta di fatto i tempi al lavoratore. Che viene chiamato anche a notte fonda. Di domenica e nel festivo.

E cosa succede? Viene proposta una “bella conciliazione”, con tanto di firma dei sindacati di categoria (assieme alle organizzazioni datoriali). Tradotto: qualche soldo in più da una parte, molti soldi in meno dall’altra parte, che è sempre quella dei lavoratori.

Venti non la firmano: di questi venti, sei mandano una lettera di messa in mora, nella quale chiedono la conversione del contratto dalla data di stipula, a tempo indedeterminato. A quei sei, il contratto non verrà rinnovato. Sei su sei! Concidenza? La dirigenza aziendale spiega ai richiedenti diritti che ciò è conseguenza della rivendicazione. E questo malgrado le cose, dal punto di vista della produzione, per l’azienda vadano bene. Ma allora i paventati drammatici “effetti” sull’impresa di una simile rivendicazione (addirittura, fare coincidere progetto e mansioni effettive!) saranno stati una boutade? Chissà. La lite diventa contenzioso –deciso appena un anno circa dopo il mancato rinnovo del contratto- in sede di Tribunale: in sede di procedura d’urgenza (cosiddetto articolo 700 del codice di procedura civile) il giudice respinge il ricorso dei lavoratori. Nessun “danno immediato ed irreparabile” ravvisa il Tribunale. Idem, in sede di reclamo, il collegio. Per il Tribunale non è sufficiente quanto allegato dai lavoratori per dimostrare che non possano mangiare. Del resto, a norma di logica, per il Tribunale perdere il lavoro non è -di per sé- un danno. Se ne riparlerà magari fra qualche anno, quando sicuramente “Almaviva” sarà ancora a Misterbianco e non magari a migliaia di chilometri di distanza in nome della delocalizzazione?

Che qualcuno pensi che una vicenda del genere potrebbe costare molto, in termini economici, all’impresa? Siamo certi che un’organizzazione di livello come quella di “Almaviva” avrà soppesato ogni aspetto e avrà certamente fatto i suoi calcoli: poi, ha deciso lo stesso, in questi termini. E secondo un modo di agire che sembra leggermente denotare una qualche perentorietà. Ma potrebbe essere solo un’impressione.

Dopo gli “scenari drammatici” prospettati in caso di mancata sottoscrizione della conciliazione, un altro passaggio che lascia trasparire un senso profondo della realtà e, sopra ogni cosa, di una giustizia vissuta come valore quotidiano e non solo come enunciazione teorica all’interno di un ufficio pubblico. Incredibilmente, la vicenda continua. E noi ci torneremo presto.


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