Pippo Fava pro Ponte


Pubblicato il 19 Agosto 2023

“…Nell’attesa, noi siciliani restiamo tutti dentro il culo del sacco, questo culo del sacco reciso e staccato da un invalicabile braccio di mare. Per attraversarlo e accostarci alla civiltà del continente paghiamo un pedaggio di millecinquecento miliardi l’anno.

Ecco dove siamo colonia…”

Da “I Siciliani” Cappelli Editore, 1980.

Da pag 270 a pag 277

“Sfottiamoci!

Tempo addietro incontrai un uomo politico molto importante, di quelli che hanno peso notevole sulle decisioni al massimo livello. Negli ultimi tempi la sua potenza è andata crescendo e lo si misura dal numero dei segretari, clienti, ammiratori, turibolanti che lo circondano dovunque egli abbia occasione di apparire, sia esso comizio, tavola rotonda, simposio, congresso, banchetto culturale. Lo si vede anche dall’aspetto fisico: ha un occhio lustro come se avesse continuamente la febbre, è scosso da continui tremiti di sorrisi, riesce a stringere anche venti mani in pochi secondi, a tutti con un grido di saluto per il quale ognuno ha la inebriante sensazione di essere stato personalmente riconosciuto. La potenza lo ha vestito anche di una miriade di tic nervosi, spalle, palpebre, dita, mento, che gli conferiscono un aspetto irrefrenabile. Quando io lo incontrai egli era al centro di una specie di vortice umano; ognuno aveva da dirgli qualcosa, chi ricordava appuntamenti, chi sollecitava opere pubbliche, raccomandazioni, posti di bidello e presidenze di enti, comizi elettorali, sovvenzioni alla squadra locale di calcio, fognature…ed egli riconosceva tutti, stringeva le mani, annuiva, rasserenava, tanto aveva parlato da avere due crosticine di saliva agli angoli della bocca.

Restammo insieme due o tre minuti appena, io non sapevo che dirgli, d’altro canto mi aveva baciato ed abbracciato, mi aveva impetuosamente gridato: “Dimmi, dimmi carissimo….!”, e allora io, , tanto per dire, gli dissi: “Perché non ti fai promotore di una iniziativa, la più vasta, la più intransigente per risolvere il problema del ponte. Ti rendi conto dei catastrofici danni per tutta l’economia italiana?…” Mi fissò per un attimo con un occhio socchiuso e l’altro spalancato dentro il quale la pupilla girava lentamente come se stesse mettendo fulmineamente a fuoco il mio volto e le mie intenzioni, alla fine disse, anzi declamò, addirittura mi dette un pugno sul petto, come se finora la colpa fosse stata mia: “Porco diavolo, il ponte! Maledetto ponte! Sì, sì, si! Il problema dei problemi! Assolutamente bisogna fare qualcosa poiché altrimenti resteremo sempre nella merda!” Chiedo perdono, ma disse proprio così, e che l’epiteto fosse ritenuto di significante bellezza, lo dimostrò l’assenso caloroso di tutti i presenti, talchè anch’io, preso da istintivo impeto di passione, gli restituì il cazzotto sul petto: “Avanti, allora!”

Stop! Interrompo il racconto dell’incontro con l’illustre uomo politico di cui riferirò la conclusione in epilogo di questo servizio. Cerchiamo prima di chiarirci noi le idee sull’argomento.

Facciamo qualche calcolo rapido sui così detti danni emergenti, cioè sul denaro pubblico o privato che la mancanza del ponte puntualmente e infallibilmente distrugge. In media, ogni giorno, viaggiano dall’una all’altra costa dello Stretto circa cento traghetti che trasportano settecento carrozze ferroviarie, duemila o tremila carri merci, e quasi settantamila passeggeri. Il costo di tali trasbordi può essere mediamente calcolato in dodici, quindici milioni al giorno che diventano dunque cinquanta miliardi l’anno. Più difficile il calcolo per quanto riguarda il trasporto delle merci, sia in importazione nell’isola che in esportazione, manufatti di ogni genere, auto, televisori, frigoriferi, utensili, materie prime, viveri, medicinali, vestiario che arrivano dalle fabbriche del continente, e prodotti commerciali, artigianali, ortofrutticoli, agrumi, chimici, minerari, che dalla Sicilia viaggiano per il resto dell’Italia e del Continente. Siamo ad una cifra che, senza dubbio, sfiora i tremila miliardi di lire. Ammettiamo ora che qualsiasi tipo di merce (soprattutto quella facilmente deperibile) subisca dalla necessità dei traghettamenti via mare, e quindi dai fatali ritardi, un logorio del dieci per cento; avremo che ogni anno, per deprezzamento commerciale, si perdono almeno altri trecento miliardi, un danno che stavolta viene sopportato quasi interamente dalla economia privata.

Valutiamo ora il costo di gestione delle navi traghetto che, per il pagamento del personale, il consumo del combustibile, la manutenzione delle navi non costano meno di quindici, venti miliardi l’anno. Aggiungiamo l’usura tecnica dei natanti che hanno una vita media di dieci, quindici anni, ed avremo almeno un’altra spesa certa di trenta miliardi.

Riepilogando sono dunque cinquanta miliardi per il trasbordo ferroviario, trecento miliardi di logorio e dispersione in tutti i commerci, ed altri cinquanta miliardi per i costi di gestione nei traghetti. Complessivamente sono trecentosettanta miliardi annui di danni emergenti che vengono sopportati in massima parte dalla economia siciliana, un impoverimento costante, un logorio senza tregua, una sorta di pedaggio feroce che viene imposto ad uno dei territori più poveri ed infelici d’Europa. Forse i siciliani non se ne rendono conto, soprattutto quelli che trattano l’argomento col tono sfottente di chi, tutto sommato, almeno non ci rimette di tasca sua: ma quasi tutto quello che consumiamo, lo paghiamo un dieci per cento in più; e viceversa tutto quel che produciamo smarrisce continuamente il dieci per cento del suo valore.

Abbiamo detto del danno emergente. Diciamo ora, tanto per restare in termini giuridici, del cosiddetto lucro cessante, cioè del denaro pubblico o privato che si potrebbe guadagnare, qualora il ponte sullo Stretto fosse una realtà, e e che resta invece soltanto una ipotesi. Il ritardo nel trasbordo da una riva all’altra dello Stretto, talvolta addirittura la impossibilità materiale del traghettamento, soffoca una infinità di iniziative economiche, commerciali, industriali ed agricole, dalla esportazione del salgemma per le nazioni del nord, alla vendita degli agrumi e dei prodotti ortofrutticoli sui mercati del centro Europa, alla esportazione del cemento e dei prodotti chimici per l’agricoltura. Una valutazione è impossibile, poiché bisognerebbe tenere conto non solo delle merci prodotte che non si spediscono ma anche di quelle altre che si rinuncia a produrre per impossibilità di esportazione, e delle iniziative agricole o industriali che non si realizzano, delle migliaia o decine di migliaia di posti di lavoro che dunque non si creano, delle attività che potrebbero essere intraprese e che invece abortiscono già in fase di progettazione. E mettiamoci nel conto anche quei trecentomila turisti motorizzati che rinunciano alla vacanza in Sicilia per il terrore di quel traghetto che bisogna attendere per ore e talvolta per giorni in file sterminate, sotto il sole implacabile degli imbarcaderi, e dunque gli alberghi che non si costruiscono, le zone turistiche che non possono essere valorizzate, migliaia di altri posti di lavoro che si disperdono.

Crediamo che almeno un terzo delle possibilità potenziali siciliane nel settore dell’industria, dell’agricoltura, delle miniere e del turismo sia letteralmente annientato dalle difficoltà di comunicazioni con il resto d’Italia e con tutti gli altri mercati europei. In termini finanziari: un lucro cessante di cinquecento, seicento, settecento miliardi l’anno.

Il danno immediato e diretto, l’implacabile mancato guadagno: siamo a cifre che sfiorano i mille miliardi annui. Questi non sono teoremi politici, o materia di dotte relazioni agli allegri simposi che riuniscono tutta la gente bene di una città con gentili signore. Questo è un documento pressoché infallibile sulla causa fondamentale della nostra miseria. Che diavolo di evoluzione può mai ambire un territorio che, per vastità ed abitanti rappresenta quasi una nazione dentro una nazione, che diavolo di struttura civile può sperare di darsi, che diavolo di programmi può immaginare, quando ogni anno parte con un handicap di mille maledettissimi miliardi?

Io non ho mai creduto alla polemica fra sud miserabile ed abbandonato, e nord privilegiato ed opimo. Un individuo può nascere povero, sfortunato, può essere orfano, ingiustamente condannato, perseguitato, derelitto, ma una popolazione di cinque milioni di abitanti, no! Se accade è per sua minchioneria, per sua incapacità politica a farsi rispettare, per suo cinismo, per dispersione delle sue energie, per disamore culturale, per difetto mentale, per mancanza di personalità, per sua naturale vigliaccheria ad intraprendere una lotta civile, per ignobile egoismo, per mancanza di solidarietà collettiva. Insomma per suo difetto storico. Io sono siciliano e scrivere questo mi provoca dolore. Ma è la verità!

Non c’è dubbio, certo, che la nuova ferrovia Firenze-Roma sia costata centinaia di miliardi e finora in Sicilia non è stato nemmeno seriamente impostato il problema del doppio binario, ma è anche vero che la Regione, con illimitate competenze, esiste da trent’anni, e che nello stesso lasso di tempo decine di uomini politici siciliani hanno occupato le più importanti cariche dello Stato non solo a livello di governo ma anche tecnico e amministrativo e nessuno ha mai impostato con assoluta intransigenza il problema del ponte sullo Stretto. Le ipotesi sono due: o nessuno ha capito che quell’opera era la base, la struttura portante di qualsiasi discorso sull’evoluzione dell’isola e del Meridione (ed è grave che due intere generazioni politiche abbiano potuto patire tanta ignoranza) oppure sapevano bene quello che significava il ponte sullo Stretto, sentivano questo strangolamento e, come sogliono dire i catanesi, che sono il popolo più cinico della terra, “si nni futtenu!”

Allora guardiamo quanto il catanese sia nel giusto! Gi ostacoli che finora si sono frapposti alla realizzazione del ponte sullo Stretto sono praticamente tre: il primo è di ordine finanziario, cioè il reperimento della gigantesca somma necessaria alla progettazione e realizzazione dell’opera; il secondo è di natura tecnica, cioè la scelta della soluzione migliore in assoluto, che garantisca l’attraversamento dello Stretto, superando tutte le insidie, terremoti, cataclismi, venti, correnti marine che rendono spesso catastrofico quel braccio di mare; il terzo motivo infine è di natura squisitamente politica; cioè chi deve praticamente progettare l’opera realizzarla ed infine gestirla.

Il primo problema è pressocchè banale. Secondo le previsioni finanziarie più recenti ed aggiornate al valore attuale della lira, tutta la grandiosa opera, comprese quelle accessorie, le rampe di accesso, le sedi ferroviarie, le stazioni di controllo, verrebbe a costare circa millecinquecento miliardi. L’identica cifra che rappresenta il danno complessivo sopportato dall’economia meridionale in meno di due soli anni. Se si pone mente che il metanodotto sottomarino dall’Africa alla Sicilia, e quindi fino al terminale di Genova viene a costare duemila e quattrocento miliardi e l’Eni è già in condizione di garantire il finanziamento dell’opera (in meno di tre anni sarà realizzata) ci si rende conto che l’ostacolo di natura finanziaria è soltanto grottesco, anche a livello dialettico. Per costruire il ponte sullo Stretto dovrebbero essere pronti l’IRI, l’ANAS, le Ferrovie dello Stato, la Cassa del mezzogiorno, il ministero dei Lavori pubblici e quello delle Partecipazioni statali, la FIAT, le grandi industrie siderurgiche, il pool dei cementieri. Oltretutto dietro l’uscio c’è una folla di faraonici postulanti, trust finanziari americani, tedeschi, francesi, giapponesi, pronti a offrire sull’unghia tutto il denaro indispensabile, duemila, tremila miliardi, pur di assicurarsi progettazione, realizzazione e gestione dell’opera per ventinove anni. Il problema finanziario dunque non esiste.

Passiamo a quello tecnico, che, senza dubbio, è importante e difficile. Recentemente la Società Ponte sullo Stretto, l’unica iniziativa seria e concreta che finora abbia valutato la situazione in tutti i suoi aspetti, ha finalmente concluso i lavori di indagine durati alcuni anni. In sostanza l’attraversamento dello Stretto può essere fatto in dieci modi diversi. Per esempio con un istmo in muratura e cemento ed un ponte levatoio per il passaggio delle navi, ma l’occlusione dello Stretto devierebbe le correnti dal Tirreno allo Jonio e potrebbe provocare autentici cataclismi nella fauna ittica, addirittura la sparizione di alcuni tipi di pesci che, per la loro riproduzione, hanno bisogno di questo ininterrotto viaggio d’andata e ritorno attraverso le acque dello Stretto. Si potrebbe realizzare un tunnel sottomarino poggiato sul fondo, come già hanno fatto i giapponesi collegando isole a distanza di oltre dieci chilometri l’una all’altra, ma i fondali dello Stretto sono troppo bassi ed allora bisognerebbe allungare a dismisura il tunnel per non superare determinate pendenze, quadruplicando praticamente il costo dell’opera.

Si potrebbe ancora costruire un tunnel di acciaio, leghe speciali e resine, galleggiante, a cinquanta metri dal pelo dell’acqua e capace di reggere elasticamente alla forza delle correnti marine, ma la soluzione viene ritenuta psicologicamente sbagliata, milioni di persone, in auto o treno, non riuscirebbero a superare l’incubo di infilarsi in un budello di autostrade e binari che galleggiano sotto il mare.

La soluzione ottimale, sia tecnicamente sia finanziariamente è quella del ponte, ad una sola campata, composto cioè da due sole gigantesche torri metalliche, sull’una riva e sull’altra, che reggono il peso dell’intero ponte. Sarebbe l’opera più grandiosa e audace mai concepita dall’uomo, ma l’ingegneria moderna oramai è in condizione di risolvere qualsiasi problema, garantendo l’opera contro qualsiasi terremoto, uragano, o catastrofe della natura. Ci vogliono due anni di studi e duecento miliardi di lire al fine di compiere tutti gli accertamenti definitivi, avere un prospetto assoluto delle possibilità sismiche, un controllo definitivo della forza e direzione dei venti, una sicurezza totale sulla scelta, la elasticità, la forza, la resistenza dei materiali. E sulla scorta di tutti questi elementi redigere il progetto esecutivo.

Ma chi deve fare questo progetto? Chi deve cominciare a spendere questi duecento-trecento miliardi per la redazione del progetto? E qui siamo al problema politico, che è l’unico, vero e autentico problema. Nella realtà i soldi ci sono, anzi ci sono soldi da tutte le parti, ed in definitiva soldi ce ne sono forse troppi. La possibilità tecnica di realizzare il ponte oramai è diventata una certezza assoluta. Bisogna soltanto scegliere l’artefice. Non dimentichiamo che si tratta di un’opera da millecinquecento miliardi , con un reddito di gestione di quasi duecento miliardi l’anno, cioè un affare colossale. Deve essere l’IRI con le sue industrie siderurgiche, l’ANAS con i suoi staff tecnici, o il ministero ai Lavori pubblici, o quello alle Partecipazioni statali con i rispettivi dirigenti finanziari e gruppi di potere, a realizzare il ponte con il denaro pubblico, o dev’essere l’impresa privata con il suo privatissimo capitale, le sue cementerie, acciaierie, industrie di manufatti, personale tecnico, interventi bancari? E dev’essere realizzato tutto con mezzi italiani, respingendo le offerte sempre più pressanti che, tramite la CEE, arrivano dall’Europa e dall’America, o non conviene piuttosto sgravarsi di qualsiasi impegno tecnico e finanziario affidando l’impresa ad un pool di forze economiche internazionali? Ed in tal caso quali forze? Si possono lasciare fuori i tedeschi e i francesi, firmando un accordo con le multinazionali americane, o viceversa escludendo costo per fare posto soltanto agli europei. Un po’ quello che accadde con la scelta del sistema tecnico della televisione a colori, i francesi volevano che adottassimo il loro SECAM, i tedeschi il loro PAL, aspettammo dieci anni prima di deciderci e nel frattempo riducemmo l’industria elettronica italiana sull’orlo del collasso.

Voglio dire, se ancora non lo avete capito, che da dieci anni, su questo problema fondamentale per il progresso civile di mezza nazione, ci sono e contrastano, e misteriosamente lottano, e si elidono e paralizzano a vicenda, almeno dieci interessi politici diversi, dietro i quali stanno a loro volta decine di altri interessi di potere, sempre più misteriosi e possenti, finanziari, industriali, bancari, tecnici. Attorno a questo affare c’è un viluppo di contendenti, che si tengono afferrati con le unghie e con i denti, con tanta forza selvaggia e accanimento, ognuno per conquistare la preda, ed ognuno per impedire all’altro di conquistarla, che stanno tutti insieme afferrati alla gola ed ai capelli, immobilizzandosi a vicenda. I politici che governano la nazione, certo non possono confessare tutto questo. Non dicono niente, anzi non parlano completamente. Con la passione e lungimiranza e fulminea volontà politica con cui hanno saputo sempre valutare storicamente i grandi eventi della nazione essi aspettano, così immobili, così ciechi e muti, che accada qualcosa fuori di loro, magari un’alleanza che consenta ad un gruppo di interessi di schiacciare l’altro. Nell’attesa, noi siciliani restiamo tutti dentro il culo del sacco, questo culo del sacco reciso e staccato da un invalicabile braccio di mare. Per attraversarlo e accostarci alla civiltà del continente paghiamo un pedaggio di millecinquecento miliardi l’anno.

Ecco dove siamo colonia. Non è nella sopraffazione storica del nord, che pure esiste, che pure è concreta, continua, ineffabile e quasi fatale, ma nella vile inerzia con cui accettiamo che il nostro destino siano gli altri a deciderlo. Come e quando il padrone bianco si compiacerà a decidere per conto del povero negro. Il Gattopardo che, al messo del nuove re d’Italia, dichiarava che i siciliani erano paghi della loro condizione di moribondi e non agognavano che un letto bavoso e un orinale, per dormire e sognare di dormire, il Gattopardo era un povero negro. La Regione Siciliana che in trent’anni ha fracassato mille miliardi per tenere in piedi dieci miserabili zolfare, senza vendere un solo chilo di zolfo, e non ha mai una volta, dico mai una volta, impostato il problema del ponte sullo Stretto, anche la Regione è un povero negro. Vi piaccia o non vi piaccia, amici miei, fino a quando così accadrà, cinque milioni di siciliani, saremo tutti poveri negri. Guardiamoci bene in faccia, palermitani discendenti dei vicerè, catanesi sprezzanti, capaci di prendere il mondo per il culo, siracusani alteri figli di Pericle e Dionigi: abbiamo ancora tutti l’anello al naso.

E qui vi racconto, per finire, quello che disse quel possente uomo politico, quasi amico mio, al quale, in un impeto di passione io avevo chiesto di fare qualcosa per il Ponte, cristo, il problema fondamentale per la Sicilia, e lui aveva fatto un urlo di altrettanta passione dicendo: “Sì, sì, sì! Maledetto ponte, problema dei problemi!” E mi aveva dato un cazzotto di gratitudine. La piccola coorte di sindaci, deputati, presidenti, galoppini, consiglieri delegati, postulanti e ammiratori, aveva fatto un applauso e trattenuto il respiro, e il possente uomo politico urlò infine!: “Abolire, abolire il ponte festivo!”, e scandendo le sillabe con la voce tonante e una serie di gesti con immaginari ceffoni ritmici in faccia, alla nazione: “O restiamo tutti nella merda!”

Così disse, così riferisco, e così siamo!”


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