Il falso pentito Sparacio e il “caso Messina” in Corte d’Appello a Catania


Pubblicato il 22 Settembre 2011

CoIl “caso Messina” è tornato al Palazzo di Giustizia di Catania. Stamane, davanti ai giudici della prima sezione della Corte d’Appello (Presidente Santangelo) nuova udienza del processo sulle “deviazioni” di alcuni giudici messinesi.

La prossima udienza è prevista per il 26 ottobre. Stamane per la parte civile Colonna (nella foto), il legale che con le sue denunce ha dato il via alla vicenda, ha parlato l’avv. Gianfranco Li Destri. Continuerà il 26 ottobre prossimo.
 Il caso è quello del falso pentito Luigi Sparacio e delle condotte già sanzionate, con condanne, in primo grado, il 10 gennaio 2008, dei magistrati Giovanni Lembo –all’epoca dei fatti sostituto procuratore nazionale antimafia- e Marcello Mondello –oggi in pensione, già capo dell’ufficio Gip di Messina- rispettivamente a cinque anni per favoreggiamento aggravato dall’avere agevolato l’associazione mafiosa e sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa.

Sparacio, in primo grado, è stato condannato, per fatti commessi mentre era titolare di programma di protezione e mentre veniva considerato una sorta di nuovo Buscetta dalla Procura Nazionale Antimafia e dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Messina, a sei anni e quattro mesi di reclusione quale capo, insieme ai boss Michelangelo Alfano e Santo Sfameni, dell’articolazione messinese di Cosa Nostra.

Un caso clamoroso che contribuì a sollevare il “caso Messina”, che coinvolse il mondo politico, giudiziario e imprenditoriale, in un intreccio di intrighi e deviazioni istituzionali, della città dello Stretto. La sentenza, arrivata dopo sei anni di dibattimento, ha completato il giudizio di primo grado sui fatti divenuti celebri, a cavallo fra la fine del vecchio millennio e l’inizio del nuovo, con il nome di “Caso Messina”, correlato con il “Caso Catania”, non fosse altro perché, allora, i due distretti di Corte d’Appello erano rispettivamente competenti in caso di ipotesi di reato commessi da magistrati. Oggi, il quadro delle competenze fra Procure è cambiato.
Può un “pentito” fare il doppio-gioco, approfittare della sua condizione per ottenere vantaggi e favori, con la complicità di chi dovrebbe perseguire i reati?
Si può impunemente calunniare chi denuncia il vero, in particolare proprio queste deviazioni?
Il Palazzo di Giustizia è solo un ufficio pubblico al servizio del cittadino o può diventare un centro di potere, anche al di sopra della Legge che dovrebbe servire?
Stamattina l’avv. Li Destri ha ripercorso alcuni passaggi fondamentali del procedimento, in particolare la denuncia dell’avv. Colonna, nel 1996, del falso “pentito” Sparacio, che non solo continuava –mentre ufficialmente era un “collaboratore di giustizia”- in condotte  mafiose, ma proteggeva –sostenne Colonna- personaggi di spicco della mafia peloritana come Michelangelo Alfano e Santo Sfameni. Alla sua denuncia –è stato ricordato in aula- il dott. Lembo rispose con una denuncia per calunnia nei confronti di Colonna (denuncia poi archiviata). Lo stesso Sparacio ha successivamente confermato la veridicità delle affermazioni di Colonna. L’avv. Li Destri ha altresì ricordato episodi a conferma delle “deviazioni” nella gestione di Sparacio e in questo senso del ruolo svolto dal dott. Lembo.
In appello, la Pubblica Accusa, rappresentata dai Pm Antonino Fanara e Mariella Ledda, ha già chiesto l’inasprimento della pena per Lembo –dieci anni riqualificando il reato in concorso esterno in associazione mafiosa e per Mondello –nove anni. Conferma della condanna per Sparacio e prescrizione per il maresciallo dei Ros Princi (principale collaboratore del dott. Lembo), condannato in primo grado a due anni di reclusione per minaccia in danno del pentito Vincenzo Paratore finalizzata alla commissione del delitto di calunnia e proprio per calunnia (per la quale Paratore è stato dichiarato non punibile perché costretto dal dott. Lembo e dal maresciallo Princi) in danno dell’avvocato Ugo Colonna, che agli occhi della mafia messinese e dei suoi protettori istituzionali aveva avuto la colpa di aver disvelato i fatti del “caso Messina”, facendo partire con la sua denuncia il processo.

In primo grado Lembo, Princi e Mondello, inoltre, sono stati condannati al risarcimento dei danni in favore dello Stato, da liquidarsi in sede civile. Princi deve inoltre rifondere anche l’avvocato Ugo Colonna, parte civile, e il pentito Paratore e deve pagare loro le spese processuali (45 mila euro a Colonna, assistito da Gianfranco Li Destri, e 20 mila euro a Paratore, difeso da Fabio Repici).

Gli imputati sono stati difesi dagli avvocati Renato Milasi, Luigi Giacobbe, Carlo Zappalà e Carmelo Passanisi.

Una vicenda scomoda e intricata, che ha visto protagonisti anche personaggi insospettabili. E’ il caso di Giovanni Lembo, già Sostituto della Procura Nazionale Antimafia, come dire un magistrato di vertice nella lotta a Cosa Nostra, in quella sorta di SuperProcura retta prima da Bruno Siclari e poi da Piero Luigi Vigna. Che, evidentemente, non sapeva nulla di quanto avrebbe fatto il dott. Lembo.

Doveva rispondere anche di concorso esterno in associazione mafiosa il magistrato, ma  questo capo d’imputazione è stato riqualificato in favoreggiamento aggravato. Al centro delle vicende di questo processo la gestione piuttosto allegra del “pentito” Luigi Sparacio.

Un mafioso doc, questo Sparacio, che per anni avrebbe goduto di un trattamento di estremo favore grazie alla complicità di apparati dello Stato: in sostanza, una falsa collaborazione, avallata istituzionalmente. Si sarebbe arrivati, secondo l’Accusa, davvero a cose impensabili e inquinamenti giudiziari.

In mezzo ci sono anche acquisti gratis di alimentari, in più uno stipendio passato dallo Stato, nel 1994, di sette milioni mentre lo stesso avrebbe avuto a disposizione seicento milioni in contanti, un soggiorno in albergo, al costo di 240 mila lire al giorno, con vitto, alloggio e magari le telefonate gratis.

Nel 1994, se la passava davvero bene Sparacio: del resto, lui ama la bella vita, tanto da sfoggiare orologi per trecento milioni e ancora da poter disporre di immobili di lusso, di una fiammante Ferrari. Poi, tanto per gradire, mentre era in vacanza acquistava mobili antichi per decine di milioni e pagava in contanti. Questo era il “collaboratore” Sparacio.

Peccato che ha accumulato qualche annetto di reclusione; i Pm hanno fatto il conto: circa 270 anni di carcere. Sparacio, però, dopo la falsa collaborazione, ha cominciato a dire la verità. Ma non gli è servito a molto. In questo processo, c’erano ancora due imputati Michelangelo Alfano e Cosimo Cirfeta, che adesso non possono essere giudicati perchè morti in circostanze misteriose: suicidatisi a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro.

Ma cos’è il “Caso Messina”? C’è per la Procura di Catania una commistione di interessi tra alcuni giudici dell’antimafia e l’associazione mafiosa facente riferimento a Michelangelo Alfano – Luigi Sparacio – Santo Sfameni.
Uno spaccato, fatto di perbenismo, di propaganda a buon mercato e di tanto malaffare, forse poco conosciuto fuori da Messina, che smentisce tanti luoghi comuni sulla provincia cosiddetta “babba”.

Un quadro, quindi, davvero grave: che, comunque, non sarebbe emerso se non fosse intervenuto un personaggio che ha pagato in prima persona e paga ancora oggi per il suo impegno professionale e civile. Il processo per il “Caso Messina” è anche e soprattutto il processo che vede per protagonista l’avv. Ugo Colonna, parte civile nel procedimento: un legale difensore di molti collaboratori di giustizia, che se vede durante un processo qualcosa che non va non fa spallucce, ma lo denunzia.

Ha assistito a tanti processi, da quelli sulle stragi a inchieste di mafia e ‘ndrangheta sullo Stretto e si è accorto che alcuni soggetti che ufficialmente facevano parte dell’Antimafia in realtà facevano il gioco della mafia per mezzo del proprio potere.

Colonna ha denunciato tutto, malgrado le maldicenze e le calunnie subite, non ultima quella di “orchestrare” i collaboratori. Ha pagato Colonna: nel novembre del 2004 venne arrestato dalla Procura di Catanzaro con un capo d’imputazione inverosimile. L’ accusa era di avere usato violenza al corpo giudiziario, reato per cui dal 1945 non era mai stato condannato nessuno. In particolare fu accusato di avere delegittimato con le sue denunzie due giudici, Enzo Macrì e Francesco Mollace.

E come finì? Scarcerato dopo nove giorni. Si mobilitò l’intero arco istituzionale da Centaro di Forza Italia a Vendola di Rifondazione: lo stesso Carlo Azeglio Ciampi, che già nel 2000 lo aveva definito “l’Ambrosoli del Sud”, si espresse a suo favore.

Alla fine, la Cassazione gli ha dato ragione e i Pm di Catanzaro hanno chiesto finalmente l’archiviazione. Prosciolto completamente. Totalmente estraneo, quindi, Colonna a simili incredibili accuse: questo atto di vile aggressione è stato ricordato, in primo grado, anche dalla Pubblica Accusa nel processo di Catania. Il PM Fanara parlò, al riguardo, di un elemento di inquinamento probatorio.


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