Femminicidio in danno di Vanessa Zappalà, avvocata Maria Concetta Tringali: “Ecco cosa ci dice l’ennesima tragedia…


Pubblicato il 27 Agosto 2021

Vanessa è stata ammazzata da un “uomo”: oggi i funerali. Un dolore che non si cancella con le belle parole. E nemmeno con le difese d’ufficio di casta e corporazione.

Per capirne di più abbiamo rivolto qualche domanda all’avvocata Maria Concetta Tringali, impegnata da tempo sul campo, in difesa delle donne e contro le varie forme di violenza che subiscono.

Quali sono gli insegnamenti di questa ennesima tragedia?

Ammesso che le tragedie insegnino qualcosa e che non si ricominci domani come se nulla fosse successo, la morte di Vanessa è un’altra sconfitta. Mi viene in mente Giordana Di Stefano, uccisa nel 2015 a 20 anni dall’uomo che aveva già denunciato per stalking. Quello che dovremmo imparare da quest’altra vittima è a non sottovalutare, a non minimizzare. Malgrado i dati (il ministero dell’interno conta 65 femminicidi in questo 2021), non c’è ancora a mio avviso una percezione corretta del fenomeno. Troppo spesso la violenza è derubricata a conflittualità, anche quelle volte in cui abbiamo per le mani delle vere e proprie bombe pronte a esplodere.

Cosa bisogna fare immediatamente?

Io credo che serva distinguere, se vogliamo agire in maniera efficace. È vero che la questione è strutturale e dunque è inevitabile che ci si spenda per cambiare la cultura, andare nella direzione della parità che significa anche rispetto nelle relazioni. Servono perciò interventi a lungo termine, perché non accada mai più che un uomo possa pensare di sopprimere una donna, come fosse una cosa! Ma un cambiamento così radicale ha bisogno di molto tempo e l’urgenza è fronteggiare il fenomeno oggi. Cullarsi limitandosi a sperare in una rivoluzione culturale può diventare un pericoloso alibi.

Perciò, se la domanda è cosa fare immediatamente, la risposta è che servono risorse, non servono chissà quali nuove leggi, soprattutto serve investire. Ad esempio, con urgenza, bisogna spendere nella formazione degli operatori e delle operatrici del processo perché anche il caso di Acitrezza ci dice che il fenomeno non è conosciuto a fondo. Le dichiarazioni del presidente Sarpietro rendono con evidenza quanto serva un pool specializzato anche nell’ufficio del GIP, come c’è già in alcune Procure inclusa quella di Catania: se davvero il giudice ha deciso per una misura tanto blanda quale il divieto di avvicinamento (senza neanche il braccialetto elettronico), facendo pesare un eventuale riavvicinamento tra la vittima e il maltrattante, è chiaro quanto ancora poco si conosca delle dinamiche di questo genere di reati! Il riavvicinamento anche quando avviene ed è agli atti nulla può aggiungere ai fini della valutazione e in ordine alla pericolosità del reo. La violenza ha fasi alterne, è ciclica, si può rimanere succubi di un maltrattante per anni, questo non vuol dire che non si sia ogni giorno in pericolo di vita. Non si può pensare di trattare questi reati come fossero reati comuni.

Nei casi di violenza contro le donne la valutazione del rischio è di una centralità assoluta, è il cuore di un’efficace azione di protezione della vittima. Le operatrici dei centri antiviolenza lo sanno bene perché quella valutazione si trovano a farla appena rispondono alla prima richiesta di aiuto, al telefono, quando senza troppi elementi a disposizione devono capire se sia o meno il caso di rifugiare la donna. E quello che sappiamo e che possiamo insegnare è che non dobbiamo sottovalutare, mai!

Cosa avviene ogni giorno nel confronto tutela della vittima-risposta delle Istituzioni?

Da avvocata posso dire che in questo Paese c’è ancora troppa strada da fare per assicurare la centralità della vittima nel processo, quella centralità che è prevista dalle convenzioni internazionali.

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha già condannato l’Italia per violazione di quelle norme, per non aver tutelato la donna, per non averla protetta, per non aver valutato correttamente il rischio, per averla rivittimizzata anche in sede processuale le volte in cui è sopravvissuta.

Avviene ogni giorno che una donna si trovi a fare i conti con pregiudizi e stereotipi.

Serve più attenzione alla intersezionalità e alla vulnerabilità, per esempio delle vittime migranti; ci auspichiamo una gestione rapida delle indagini e dei processi (e rapida non vuol dire superficiale), sentenze in cui la pena sia commisurata alla gravità del reato e sulla cui certezza non sia lecito dubitare come accade oggi.

Quali le lacune complessive nell’azione di contrasto delle Istituzioni?

Le lacune sono quelle di una strategia che non è unitaria, univoca. Le leggi contro la violenza domestica ormai ci sono. È vero che sono recenti e che nell’ultimo ventennio si sono susseguiti provvedimenti slegati che poi si sono sedimentati, ma oggi rappresentano un quadro accettabile. Sono certamente migliorabili.

Manca quello che il Grevio (che è l’organismo indipendente, previsto dalla Convenzione di Istanbul, con il compito di monitorarne l’applicazione) nel Primo rapporto sull’Italia, pubblicato a gennaio dell’anno scorso, definisce come comunicazione e il coordinamento interistituzionale.

Personalmente mi pare urgente insistere ad esempio sulla necessità di un reale dialogo tra i giudici della sezione penale e quelli della sezione civile, specie quando devono decidere dell’affidamento di un minore e il padre è sotto processo per maltrattamenti, accusato di condotte violente, a volte feroci. La violenza assistita è a mio avviso un aspetto che al momento non è tenuto nella dovuta considerazione, in special modo dai consulenti d’ufficio la cui formazione ritengo il più delle volte assolutamente carente e lacunosa. Torniamo sulla formazione, vede? È un punto importantissimo!

La Regione pochi mesi fa ha varato un provvedimento che istituisce una cabina di regia sul fenomeno della violenza. Un organismo che si aggiunge al Forum permanente e all’Osservatorio che negli anni hanno prodotto poco o nulla. La raccolta dei dati, poi, è del tutto inesistente. Questo intendo per azione sinergica, intendo la serietà dello studio per la ricerca di soluzioni durature oltre che tempestive.

Vedo invece grandi fervori, fuochi che durano poco, dichiarazioni di intenti che il più delle volte creano scatole vuote.

Si parla di problema culturale: è vero? Che cosa si può fare e in che tempi?

Credo di avere già risposto, è una strada lunga e lastricata di difficoltà, di resistenze anche ideologiche quella per la parità. Cambiare la cultura dominante è superare il patriarcato, è un uomo che non si riconosce in posizione di supremazia rispetto a una donna, che non pensa di poterla dominare, zittire, annullare per diritto divino, per una questione di attributi. Siamo noi che camminiamo vicini, senza più binari a doppia velocità, con gli stessi strumenti e le stesse opportunità, pur nelle differenze che sono arricchimento e non vanno cancellate.

Si ipotizzano anche soluzioni tipo ricovero in strutture psichiatriche o simili: cosa ne pensa?

Io starei attenta a trasferire il ragionamento sul piano della salute mentale, anche se ci stiamo interrogando su come mettere la vittima al sicuro. Ricordiamoci che non sono pazzi, non uccidono in preda a raptus, sono uomini abituati a trattare le donne come cose, su cui rivendicare un diritto di proprietà che arriva fino all’eliminazione. Non credo nelle tempeste emotive, la Commissione d’inchiesta al Senato lo dice da anni, dopo gli approfondimenti, le audizioni, gli studi sugli atti giudiziari: sono condotte ripetute e reiterate che, in fine, culminano nell’uccisione. Il recupero del maltrattante può servire, certamente. Ma se i soldi non ci sono per tutto, mi sia consentito di dire che le risorse intanto vanno spese per le donne a cui va restituita dignità, lavoro, indipendenza.

Ultima domanda: come valuta le dichiarazioni di questi giorni venute dai vertici della magistratura catanese?

Una difesa d’ufficio e un’occasione mancata per fare autocritica. Poi è anche possibile che nel chiuso delle loro stanze invece stiano già provando a ragionare, a cercare un modo diverso per affrontare i prossimi casi. Mi piacerebbe pensare che anche la tragedia possa insegnare qualcosa, per chiudere con la domanda che mi ha posto all’inizio. Vorrei che fosse chiaro a tutti che deve esserci un modo per raddrizzare la rotta, perché è certo che così non si può andare avanti. Cosa crede che mi dirà la prossima donna che incontrerò al centro antiviolenza appena le consiglierò di denunciare?


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