Una crisi -di governo- all’italiana


Pubblicato il 09 Settembre 2019

Finisce così. In Italia finisce sempre così, che la lezione del Machiavelli, allora forse resa necessaria dallo stato delle cose, diventi il credo di novelli ribellisti andreottiani, che credono di logorare chi il potere non lo ha, tenendoselo stretto a costo di ogni compromesso. Commentando la sua firma sulla legge 194, che introduceva l’aborto in Italia, appuntava il cattolico Andreotti nel suo diario: «Mi sono posto il problema della controfirma a questa legge (lo ha fatto anche Leone per la firma) ma se mi rifiutassi non solo apriremmo una crisi appena dopo aver cominciato a turare le falle, ma oltre a subire la legge sull’aborto la Dc perderebbe anche la presidenza e sarebbe davvero più grave».

Il compromesso in politica è necessario, se non vogliamo uno stato di perenne guerra civile. Ma non lo è scendervi sempre, e non lo è, soprattutto, scendervi a qualunque costo. Sappiamo qual è l’epilogo di storie come quella politica di Andreotti e della Dc: il sale perde il suo sapore, non serve più a niente, e la gente lo butta a terra e lo calpesta.

Era preventivabile che la piattaforma Rousseau non avrebbe rappresentato nulla più di un Don Rodrigo già appestato, pronto a lasciare il campo al più lieto dei finali. Nessuno aveva messo in conto un risultato degno della migliore tradizione bulgaro-sovietica, con un netto 79,3 a favore del governo, a guida Conte, tra M5S e Pd. Sgombriamo, però, il campo da facili moralismi: ogni partito ha diritto a consultare la propria base, si consulta come meglio crede. E se il metodo telematico ha portato in Parlamento anche cittadini che, negli altri partiti, avrebbero al massimo potuto aspirare al ruolo di attacchini, gli si può perdonare che anche tutte le altre consultazioni avvengano su una piattaforma privata, solo nominalmente gestita da terzi neutrali, lenta a sfornare risultati come il più tradizionale dei seggi.

Il voto non ha sancito la nascita di un amore, ma ha decretato un divorzio – quello tra i pentastellati, tornati grillini dopo il richiamo del fondatore, e la Lega di Salvini. Il governo che verrà, sarà il prodotto della più fallimentare delle strategie amorose: quando mai ha funzionato quella del chiodo schiaccia chiodo! Da un lato un amore che non si è potuto consumare all’indomani delle elezioni del 4 marzo 2018, quello di Renzi per Berlusconi, e dall’altro quello infranto dei 5S con la Lega, il primo amore che, per definizione, non si scorda mai, anche se sarebbe meglio farlo, dato che il più delle volte è un incubo. Da due amori infranti non ce ne fai uno nuovo, ma rimangono due solitudini rese infeconde dalla fortuna avversa.

In questa storia di intrallazzi e di passioni, gli unici a farne le spese sono stati Di Maio e Di Battista, giovani innamorati di un sogno utopico, divenuto sotto i loro stessi occhi un ‘borghese’ mercimonio. Forse Grillo non chiederà mai scusa per averli illusi, ma questa penna deve vergare un elogio della genuinità dei due: i sorrisi tirati di Di Maio, la favella spenta di Dibba sono indice che questi due ragazzotti di provincia, figli di anonimi cittadini ribalzati agli onori delle cronache come bersagli trasversali di vendette politiche, avevano un minimo di dignità, una certa coerenza che, per quanto non sia indice di giustizia, rimane merce rara nella melma cinica dei palazzi che tutto ammorba. E che, infine, ha ammorbato anche il loro sogno. Una sola alleanza avevano escluso in campagna elettorale: quella col Pd e quella con Forza Italia. Col Pd ci faranno un governo, che potrebbe essere salvato, all’occorrenza, dai voti di Forza Italia.

Quando la rabbia sbollirà, capiranno che a tradirli non è stato Salvini, in fin dei conti neppure un alleato, ma compagno accidentale in un gioco troppo pericoloso come è stato lo sfidare la roccaforte di Bruxelles, ma gli intimi con i quali hanno diviso il pane della speranza. Perché le pugnalate che arrivano in profondità, sono quelle sferrate dalla mano amica.

Quella di Giuseppe Conte per esempio, scandalizzato dai rosari mostrati in piazza, che riceve i propri come endorsement nei palazzi sacri. Chiedessero a lui, che festeggiava alle spalle di Di Maio le prime proiezioni delle urne, per poi dirsi «elettore storico della sinistra», modo comunque inopportuno di liberare una scanno da vicepremier a chi, mentre lui era a confabulare a Davos con Frau Merkel, percorreva in lungo e in largo la Penisola per far crescere il consenso del governo. Chiedessero a lui, che ieri faceva la velina negli show di Salvini reggendogli i cartelli, ed oggi è pronto a capovolgerli firmandone di contrari. Chiedessero a lui, che con un durissimo discorso in Senato, più che a tentare di ricucire la trama che sorreggeva il suo governo, l’ha ridotta a brandelli. Chiara dimostrazione che la ruota di scorta era già pronta (magari proprio Di Maio non lo sapeva).

E altrettanta chiara dimostrazione del fatto che non andrebbe dato troppo potere e troppa visibilità a chi ha già abbastanza entrature nel mondo che conta. Perché no, Giuseppe Conte non era quello che credevamo in molti; non era un ‘normale cittadino’, per usare un’espressione cara al vocabolario grillino. Lo erano Di Maio, Di Battista e tutti gli altri grillini, ma non Giuseppe Conte. Del resto, ce lo ha detto lo stesso Beppe Grillo: Conte è un Elevato, un illuminato neoumanista a cui, al momento giusto, sono state puntate addosso le giuste luci.

La stessa mano di Grillo gronda sangue, che è anche il sangue dell’indipendenza del movimento, rimesso in riga da una videostrigliata. Non è bastata la separazione tra i due blog (quello del Movimento e quello personale del comico), ma chi si illudeva che lo sarebbe stato? Grillo ha dettato la linea e gli altri, perfino i due arconti, hanno dovuto semplicemente battere i tacchi. Perché ogni partito, in questi sventurati tempi, ha un padrone – il padrone dell’apparato. Forza Italia e il M5S sono figli di un malessere vero, che l’apparto tecnico riesce ad intruppare. Ma se nel 1994 il proprietario dell’apparato ha voluto, vanità sua, entrare nell’agone, Grillo ha optato per l’Olimpo, dal quale discende quale deus ex machina a risolvere la fitta trama dell’esistenza dei comuni umani.

Infine, è la mano di decine di migliaia di militanti. Che, ad ogni consultazione sulla piattaforma, dimostrano sempre più la loro non estraneità a questa società nazionale. Perché non va dimenticato che, dal Salvini della Diciotti al governo demogrillino, la base è stata consultata. E la base, che è anch’essa il partito, ha accettato, di volta in volta, ogni compromesso. Perché la base non è diversa da ogni altra basse: anch’essa forma il partito, e il partito è custode del potere. E il potere logora chi non ce l’ha.

Non siamo figli di Pitagora e di Casadei, come cantava un motivetto qualche decenni fa. Siamo figli di Machiavelli e di Andreotti. Tutti santi col saio, quando siamo in pubblico. Tutti baciapile in privato. Sia esso un sacro palazzo o un informatico apparato. Rimangono fuori, per ora, due simpatici giovinetti, che presto cresceranno in un ambiente in cui il cinico spregio per l’ideale è fatto passare come sensata critica all’ideologia.

Antonio Giovanni Pesce.


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