Raffaele Stancanelli rischia di decadere da sindaco e pure da senatore?


Pubblicato il 24 Ottobre 2011

di iena incompatibile

Certo che è un vero peccato che alla luce della recente sentenza della Corte costituzionale, che sancisce l’incompatibilità tra la carica di parlamentare e quella di sindaco di un comune con popolazione superiore ai ventimila abitanti, il sindaco di Catania Raffaele Stancanelli non sia decaduto da primo cittadino di Catania e da senatore della Repubblica Italiana. Sarebbe stata la giusta punizione nei confronti di un personaggio che per oltre tre anni ha fatto il sindaco e il senatore, infischiandosene del fatto che una città come Catania avesse bisogno di un primo cittadino a tempo pieno così come la Repubblica italiana necessitava di un senatore onnipresente.

I dati sui parlamentari, divulgati recentemente, ci dicono che Stancanelli in Parlamento è stato tra i meno attivi di tutti, mentre i sondaggi sul gradimento dei sindaci ci dicono, invece, che nella graduatoria dei primi quarantacinque Stancanelli neppure c’è. Possiamo sostenere che nell’intento di occupare entrambe le poltrone, Raffaele Stancanelli ha lasciato a desiderare sia nell’uno che nell’altro ruolo? In un momento così delicato per Catania e la nazione, poi, doveva avvertire ancor di più il dovere di dedicarsi a tempo pieno all’una o all’altra funzione. Non per orgoglio personale, ma per dovere nei confronti degli amministrati.

E allora perchè non proviamo, fantagiuridicamente parlando, a sognare che Stancanelli possa esser decaduto da entrambe le cariche? Dai, mettiamocela tutta.

Innanzitutto va chiarito che la Corte Costituzionale, con la sentenza 21 ottobre 2011 n. 277, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli 1, 2, 3 e 4 della legge 15 febbraio 1953, n. 60 (sulle incompatibilità parlamentari), nella parte in cui non prevedono l’incompatibilità tra la carica di parlamentare e quella di sindaco di Comune con popolazione superiore ai 20.000 abitanti.Il fatto è che la normativa in vigore, in particolare le due norme che regolano l’elezione alla Camera e al Senato, vieta a un presidente di provincia o a un sindaco di comune con più di ventimila abitanti di diventare parlamentare, mentre la legge che disciplina le incompatibilità dei parlamentari, la n. 60 del 1953 per l’appunto, non prevede nessun divieto nel caso contrario, cioè che un parlamentare possa diventare anche sindaco. E così, nel silenzio della legge, politici come Raffaele Stancanelli, pur essendo parlamentari nazionali, hanno potuto candidarsi ed essere eletti a primi cittadini di importanti città. Non perché acclamati dal popolo ma perché la precedente legge elettorale per le amministrative ha sempre favorito i candidati con le liste più importanti (e Stancanelli aveva, tra le altre, tutto il Pdl e il Mpa). Bastava votare un consigliere e il voto andava automaticamente al sindaco.

Nella motivazione della Consulta si legge che viene colmato un vuoto legislativo che provocava “la lesione non soltanto del canone di uguaglianza e ragionevolezza ma anche della stessa libertà di elettorato attivo e passivo”. Per dirlo in altri termini l’Alta Corte, partendo da un principio introdotto dalla legge e cioè quello della incompatibilità tra sindaco di un comune con più di ventimila abitanti e quello di parlamentare, ha semplicemente eliminato una disparità che non aveva ragione di esistere e cioè: il divieto di cumulo delle cariche non deve valere solo per il sindaco che desideri candidarsi al Parlamento ma anche, al contrario, per il parlamentare che intenda candidarsi a sindaco. La Corte, in definitiva, ha censurato il cumulo tra le due cariche, proteggendo l’esercizio delle due funzioni, ritenendo che non si possano contemporaneamente ricoprire al meglio due funzioni così importanti per la vita della collettività. Una censura prima morale che giuridica per tutti quei politici che come Stancanelli hanno sino ad oggi ritenuto di poter ricoprire entrambi i ruoli, un piede a Roma e uno a Catania.

Infatti, nelle motivazioni della sentenza emessa dalla Corte si legge: “…Tale profilo finalistico non può trovare attuazione se non attraverso l’affermazione della necessità che il menzionato parallelismo sia assicurato, allorquando il cumulo tra gli uffici elettivi sia, comunque, ritenuto suscettibile di compromettere il libero ed efficiente espletamento della carica, ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 51 Cost. (sentenza n. 201 del 2003). Poiché in ultima analisi le cause di ineleggibilità e di incompatibilità si pongono quali strumenti di protezione non soltanto del mandato elettivo, ma anche del pubblico ufficio che viene ritenuto causa di impedimento del corretto esercizio della funzione rappresentativa, il potere discrezionale del legislatore di introdurre (o mantenere) dei temperamenti alla esclusione di cumulo tra le due cariche «trova un limite nella necessità di assicurare il rispetto del principio di divieto del cumulo delle funzioni, con la conseguente incostituzionalità di previsioni che ne rappresentino una sostanziale elusione» (sentenza n. 143 del 2010)”.

Facciamo un altro passo avanti: la Corte considera il “caso Stancanelli”, cioè l’ipotesi di un parlamentare candidato a sindaco, come una causa di ineleggibilità, alla stragua dei sindaci che intendono candidarsi al Parlamento, ma la considera una ineleggibilità sopravvenuta che, per giurisprudenza consolidata, va in questa ipotesi trattata come una causa di incompatibilità.

Nel corpo della sentenza è, infatti, possibile leggere: “…Preso atto, poi, del “diritto vivente” consolidatosi, a partire dal 2002, sulla base della prassi (peraltro ritenuta insindacabile ex art. 66 Cost.) seguita dalle Giunte per le elezioni di Camera e Senato – le quali (pur nella consapevolezza dell’esistenza di una lacuna legislativa dovuta alla mancata disciplina, nelle norme statali, della ipotesi di incompatibilità in esame) ritengono di non poterla colmare in via interpretativa, attraverso l’applicazione analogica delle disposizioni concernenti l’ineleggibilità, ostandovi il principio di tassatività delle cause d’ineleggibilità e incompatibilità e la considerazione che l’elettorato passivo rientra tra i diritti politici fondamentali del cittadino –, il rimettente rileva tuttavia che, dalla giurisprudenza anche risalente della Corte costituzionale, emerge la costante valorizzazione del principio cosiddetto di conversione delle cause di ineleggibilità sopravvenute in cause d’incompatibilità, onde colmare le eventuali lacune legislative (come da ultimo affermato nella sentenza n. 143 del 2010 proprio in tema di incompatibilità tra cariche elettive nella Regione Sicilia).

Per capire cosa potrebbe accadere ai parlamentari nazionali divenuti sindaci, dobbiamo innanzitutto tornare a guardare le disposizioni della succitata legge n. 60 del 15 febbraio n. 1953, oggetto di censura da parte della Corte Costituzionale. Ebbene, innanzitutto, l’art. 7 sancisce che i membri del Parlamento per i quali esista o si determini qualcuna delle incompatibilità previste negli articoli precedenti (naturalmente integrati con il “principio additivo” ora introdotto dalla Corte) debbono, nel termine di trenta giorni, optare fra le cariche che ricoprono e il mandato di parlamentare.

Pertanto, secondo la nostra fantainterpretazione, Stancanelli soggiacerebbe all’ineleggibilità sopravvenuta come sindaco di Catania e all’incompatibilità come parlamentare. Magari!

Da quando decorrerebbero i trenta giorni per eliminare le cause d’incompatiblità ed esercitare il diritto di opzione? Dal momento dell’elezione a sindaco o da quello della pubblicazione del pronunciamento della Corte costituzionale (che avverrà tra qualche giorno)? Secondo noi, il termine decorreva dal momento dell’elezione a sindaco e, quindi, sempre a nostro avviso, Raffaele Stancanelli ha perso il diritto di eliminare la causa d’incompatibilità con la funzione di parlamentare. Pertanto, sempre secondo la nostra interpretazione, entrerebbe in gioco il successivo articolo otto della legge in questione che demanda alla giunta delle elezioni della Camera dei deputati o del Senato, per i deputati o senatori che non abbiamo ottemperato a quanto disposto nell’art. 7. La Giunta del Senato, a nostro avviso, non potrebbe che dichiarare la decadenza di Stancanelli da parlamentare nazionale in quanto sono ampiamente trascorsi i trenta giorni dall’inizio della condizione di incompatibilità (anzi son passati tre anni!).

E poi, secondo le normative che disciplinano l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, sono ineleggibili i sindaci dei comuni con popolazione superiore a ventimila abitanti a meno che non si dimettano dalle cariche almeno 180 giorni prima. L’art. 7, primo comma, lettera c), del d.P.R. n. 361 del 1957, recante il testo unico per l’elezione della Camera dei deputati, sancisce che: «Non sono eleggibili: […] c) i sindaci dei Comuni con popolazione superiore ai 20.000 abitanti». A sua volta, l’art. 5 del decreto legislativo n. 533 del 1991, recante il testo unico per l’elezione del Senato della Repubblica, dispone che: «Sono eleggibili a senatori gli elettori che, al giorno delle elezioni, hanno compiuto il quarantesimo anno di età e non si trovano in alcuna delle condizioni d’ineleggibilità previste dagli articoli 7, 8, 9 e 10 del testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione della Camera dei deputati, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361». Non applicare questa norma anche ai parlamentari candidati a sindaco vorrebbe dire creare, nuovamente, una irrazionale disparità tra i cittadini che ricoprono l’ufficio di sindaco e quelli che ricoprono la carica di parlamentare. Disparità ingiustificata anche perché la Corte ha già chiaramente ribadito che le incompatibilità e le ineleggibilità si pongono la finalità di tutelare l’esercizione delle funzioni nell’interesse degli amministrati.

Purtroppo, diciamo noi, non andrà così anche se moralmente parlando sarebbe stato l’epilogo più giusto. Stancanelli, nei primi trenta giorni successivi alla pubblicazione della sentenza, potrà esprimere l’opzione in favore della carica di senatore. A nostro modo di vedere si tratta di un’opzione a scelta obbligata perché Raffaele Stancanelli, sempre a nostro avviso, non può più scegliere di rimanere a fare il sindaco essendo già stata accertata l’incompatibilità con la carica di sindaco in giudizio. Se non dovesse optare per il Senato, però, il cittadino che ha sollevato il caso in tribunale, il sig. Battaglia, potrebbe chiedere al giudice un provvedimento per dichiararlo decaduto dalle funzioni di sindaco. Tra le due cariche ricoperte da Stancanelli, infatti, il tribunale non può sentenziare sull’elezione in Parlamento, per la quale come dicevamo prima sono competenti le due giunte per le elezioni di Camera e Senato, ma può solo far valere la legge sulle consultazioni cittadine.

Insomma, Stancanelli deve, entro trenta giorni dalla pubblicazione del provvedimento della Corte, dimettersi da primo cittadino per rimanere senatore, altrimenti la giunta per le elezioni del Senato potrebbe dichiararlo decaduto anche da questa ultima funzione. Se, quindi, non si dimettesse da sindaco, può “dimetterlo” il tribunale col “rischio” che rimanga fuori da tutto.


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